E’ in corso un intenso dibattito sull’introduzione della mediazione obbligatoria quale condizione di procedibilità dell’azione giudiziaria in talune materie, affidata a soggetti terzi rispetto all’ordinamento giudiziario, sebbene sotto il controllo del Ministero della Giustizia.
Gli organismi rappresentativi dell’Avvocatura, nelle loro varie forme, hanno adottato una posizione di intransigente opposizione allo strumento.
Ho desiderio di esprimere le mie perplessità, non di principio e tutte di merito, sull’argomento.
E’ ben vero che il sistema di ADR propostoci in Italia non è scevro da limiti e manchevolezze. Come spesso succede nel nostro Paese, non è chiarissimo quanto sarà penetrante il controllo sugli organismi di mediazione, sia pubblici che privati e, dunque, se e come saranno effettivamente sanzionati eventuali abusi che, ove vi saranno, penalizzeranno la parte più debole, come d’abitudine.
E’ anche vero che non può essere riconosciuta, nel nostro sistema costituzionale, una sorta di giustizia “extra ordinem” ma la mediazione non è una giustizia extra ordinem, né è una giustizia. E’, invece, un approccio culturale e di metodo che deve aiutare i soggetti ad individuare i loro reali interessi e a trovare autonomamente quel punto, spesso sfuggente e delicato, dove il diritto dell’uno deve recedere per non coartare il diritto dell’altro.
Molti Colleghi, in queste settimane, mi rappresentano polemicamente che spesso il ruolo che noi tentiamo di svolgere nella professione è proprio quello di indurre il cliente alla “mediazione”, ruolo complicato e difficile che spessissimo registra il fallimento del tentativo.
Vorrei osservare che nella mia esperienza professionale, non brevissima, raramente ho incontrato Colleghi che avessero fino in fondo la convinzione che l’interesse del cliente e l’efficacia del ruolo sociale dell’Avvocatura risiede in massima parte nella rapidità della soluzione al loro “bisogno”. In questi rari casi, i clienti sono usciti dai nostri studi avendo rinunciato a qualcosa, spesso di assolutamente marginale, ma con il risultato – quello vero, quello che li metteva sereni – in tasca.
Molto, ma molto più spesso, mi è capitato di assistere clienti in cause estenuanti, dinanzi a Giudici stremati dalla sola quantità di fascicoli per ogni udienza, con Colleghi che sapevano ben dimostrare la loro conoscenza della procedura. Cosa ne abbiano guadagnato i clienti anche quando abbiamo vinto, non mi è dato di capire. Spesso, sentenze buone solo da mettere appese in un quadro, non più utili perché il soccombente era sparito, fallito, comunque non in grado di adempiere o in grado di adempiere solo transattivamente e, dunque, con un risultato che ben avrebbe potuto essere raggiunto svariati anni prima, con un costo finanziario – sociale enormemente inferiore.
La giustizia civile così com’è, serve solo alla parte più forte, a quella che è in grado di resistere in giudizio perché non deve soddisfare bisogni primari, a quella più cinica e, spesso, a quella che ha torto.
Allora io avverto un vero senso di fastidio quando leggo che l’attuale posizione dell’Avvocatura è motivata dal senso profondo della professione: la difesa dei diritti.
Perché i diritti, in Italia, sono conculcati e l’Avvocatura non è scesa in piazza per rivendicare una riforma vera, per chiedere che il patrocinio dei più deboli, a spese dello Stato, fosse effettivo, per chiedere che la “macchina” funzionasse meglio, per chiedere camere effettive di compensazione, anteriori al giudizio, che evitassero l’ingorgo dei Tribunali con un contenzioso enorme e di scarsissima qualità, per impedire la follia giuridica e civile della prescrizione breve per gli incensurati, quella sì, davvero uno sberleffo ai diritti delle vittime di reato.
Perché non si può fare il paragone con altre civiltà giuridiche: non esiste al mondo un altro luogo dove il contenzioso giudiziario è così enorme, dove c’è un così spaventoso numero di Avvocati che, inevitabilmente, produce un aumento esponenziale delle cause iscritte a ruolo.
Perché non esiste un’altra civiltà giuridica al mondo dove perfino i giochi fra bambini finiscono davanti ad un Giudice per ottenere il risarcimento del danno da “sbucciatura” del ginocchio.
Perché non esiste alcun altro Paese al mondo ove il ruolo dell’Avvocatura e della Giurisdizione sia così svilito e vilipeso.
Allora, come se ne esce?
Voglio dire ai Colleghi: io vorrei continuare a fare l’Avvocato, cioè a rispondere al bisogno di giustizia che la collettività sente forte; non vorrei più dover dire ad un mio cliente, al momento del conferimento del mandato, che può scordarsi della questione per un indeterminato numero di anni, che può cominciare a ragionare, se è anziano, di un regalo che sta facendo ai suoi eredi, iniziando una causa; vorrei avere la possibilità di discutere serenamente, in contraddittorio, con un Magistrato oggettivamente in grado di guardare il fascicolo fino in fondo, senza numerosi Colleghi che premono alle spalle, spazientiti dall’attesa; vorrei poter dire al mio Cliente che abbiamo avuto un risultato che è utile a lui, in modo percepibile, concreto; vorrei poter vincere una causa potendo rispondere al Cliente del risultato utile per lui, non del mio solipsistico compiacimento di avere “azzeccato” la difesa.
Quante volte, diciamolo, siamo nella condizione dell’abusata barzelletta “l’operazione è perfettamente riuscita ma il paziente è morto”?
Credo che l’opportunità che le norme sulla mediazione e sulla conciliazione ci costringono a cogliere è quella di una profonda modifica del nostro concepire e vivere la professione.
Siamo tutti sul margine di un dirupo che si sbriciola di ora in ora, cittadini, avvocati, magistrati, civiltà del diritto.
Un potente sforzo comune per “de – giurisdizionalizzare” i rapporti umani e civili è indispensabile e urgente per salvare il Diritto e la funzione dell’Avvocatura.